Dunque una mattina di aprile Virginia e io partiamo per l’Oriente.
Lei casualmente parla il cinese, un valore aggiunto inestimabile per la nostra spedizione nel Catai, anzi, oserei dire un requisito fondamentale in talune circostanze, per esempio con i tassisti, che l'”occidentale” lo schivano come la peste, lo ignorano letteralmente quando si sbraccia per fermarli, lo seminano volentieri all’angolo di una strada, perchè, ancorchè allettati dal guadagno della corsa, temono colui che vorrebbe sedersi sul loro sedile posteriore: è uno che agiterà un foglietto o uno smartphone sotto i loro occhi pretendendo d’essere portato in una via di cui essi probabilmente ignorano l’esistenza, non tanto perchè quella via sia estranea alla toponomastica, ma semplicemente perchè verrà pronunciata in inglese, questo sconosciuto, o in un mandarino che quasi sicuramente lascia un po’ a desiderare.
Non ho mai capito che cosa si raccontassero Virginia e i tassisti, ma sentivo che lei era preziosa per arrivare a destinazione. Insensibile al significato dei suoni che si producevano nell’abitacolo, familiari per me quanto lo yupic siberiano, sopraffatta dall’inutilità dei miei sforzi per comprenderli, io di solito mi concentravo autisticamente sul finestrino e mi piaceva guardare la Cina che scorreva in fast-forward attraverso il vetro, come seduta su una giostra (su un autoscontro, per la precisione, perchè chi non c’è stato, non può nemmeno immaginare il rischio incalcolabile di essere passeggeri o ancor peggio pedoni per le strade di Shanghai o di Pechino!).
Un traffico senza regole, senza precedenze, dove agli incroci convergono con pari indisciplina automobili, risciò elettrici e a pedali, motociclette, biciclette e pedoni, una circolazione che non prevede sentimenti di “pietas” nei confronti di nessuno.
Conoscere la lingua, comunque, oltre a far instaurare dei rapporti più efficaci con gli autisti, offre anche, per esempio, l’impagabile vantaggio di capire a che regno appartenga ciò che ti viene servito nel piatto e dunque superare ogni irragionevole perplessità, come quella volta al ritorno dalla gita alla Grande Muraglia in cui ci siamo fatte una meritatissima scorpacciata di conifere e tofu, o quando abbiamo assaggiato le scaglie di pelle d’anatra laccata intinte nello zucchero, a mo’ di dessert, buono eh, niente da dire.
Non essendo quindi costretta ad arrabattarmi con il cinese a scopo di sopravvivenza, favorita dal bilinguismo sapiente della mia compagna di viaggio, in dieci giorni ho imparato a dire solo tre cose: “ni-hao” (buongiorno), “xie-xie” (grazie) e l’utilissimo, nonchè difensivo “chi bao le” (sono sazio), un vocabolario più che onorevole e soprattutto adeguato da un punto di vista diplomatico, cioè sufficiente per quei pochi, essenziali scambi che la cordialità locale consente, dato che non è esattamente un popolo di appassionati, nè di compagnoni.
Non li ho mai visti rispondere a un sorriso, ho il ricordo di volti seri, apparentemente imperturbabili, che definirei “compresi” in una dimensione ripiegata ed onerosa, quella di un vivere che stanca, di un lavorare che stanca e di un vivere che è lavorare.
Ma soprattutto di un vivere che non si abbandona mai frontalmente alle emozioni e tutto il non detto rimane a galleggiare nei loro occhi.
Più di una volta sulla metropolitana, a Shanghai come a Pechino, è successo che ci fissassero, con la leggerezza di una tomografia, ma per quanto questo fosse un po’ imbarazzante, a me sembrava, la loro, una forma di curiosità istintiva, naïf, priva di pregiudizio o di connotazioni morbose, come a voler carpire, dietro a quei nostri lineamenti un po’ differenti (e tali da meritare ogni tanto persino una documentazione fotografica a tradimento) tutti gli aspetti di una cultura diversa e lontana.
Ma così apparivano loro a me, magari non li fissavo con la stessa insistenza, però di certo li ho studiati anch’io con l’attenzione che usano i gatti, drizzando le orecchie a tutto ciò che mi circondava, voci, usi, cibi, riti, architetture e tratti somatici, con altrettanto profondo interesse e la sensazione esaltante di abitare temporaneamente un pianeta sconosciuto.
Segue…
Foto (B. De Vito): Beijing, Piazza Tiananmen
In Cina??? Occavolo! Attendo il seguito, quel che leggo fin ora mi piace assai 🙂
Ciao Natabalzana! Al Salone del Libro di Torino ti sarebbe piaciuto sentir chiacchierare Guccini! 😉 Grazie!
Guccini?? Ma senti…Magari venisse a chiacchierare qui in città, avrebbe pochi chilometri da fare…anche se io spero sempre che torni a fare una cantatina 😉
Al Salone del Libro ha fatto capire di non metterlo in croce con ‘sta storia dei concerti, che lui non c’è la fa più, di ascoltarlo su youtube che internet ne è pieno o attraverso i suoi dischi. Temo non farà eccezioni…! Troppo forte però 🙂
Aahh, finalmente! Iniziavo a domandarmi….ma non avrei incalzato perchè era questo che attendevo. La scrittura come la intendi tu, non va di corsa. E il lettore nota la differenza. 🙂
anche io attendo il seguito…e poi anche 4 chiacchiere de visu! 😉
e mannaggia a te…che sabato te lo devo proprio dire….era per-fet-to!
[c’ho le pretese di chiaroveggenza io, sai! tsè!…lao tzè (per rimanere in tema!)] ;D
Lao-tzŭ ti avrebbe resa più saggia, invece eccoti qua… Mi riferisco agli aperitivi, non ai complimenti, che quelli son strameritati, tzŭ!
Saggia io? Lo ero tantissimo. Ma la cosa più saggia che ho fatto è impegnarmi assai per diventare così! 🙂
un paradosso che sarebbe piaciuto al caro tzù!
tao nèh! 😛
Secondo te cambiano vivendo da un’altra parte? Perche’ qualche sorriso son riuscita ad intercettarlo, qui … Un fatto e’ sicuro, lavorano sempre, credo che non conoscano il concetto di vacanza, riposo, oggi chiuso.
Aspetto anche io il seguito 🙂
Secondo me sì, tendono a fare comunque molto gruppo, ma che si lascino un po’ andare in paesi un pochino meno inquadrati credo che sia immaginabile, sì.
Attendo la seconda parte
Arriverà.
Come ci porti tu, in giro per il mondo, non ci porta nessuno. E per fortuna.
(Una persona che ha imparato a guidare, in quei traffici lì, dice che il segreto sta nel seguire il flusso, un flusso che devi imparare a vedere, a capire, una specie di logica sottesa, e solo quando vedi il flusso poi puoi prendere la macchina. Chissà)
Molto metaforico. E in effetti anche in me c’è molto traffico. T’aspetto!
Ho una grande passione per i racconti di viaggio perché mi schiudono gli occhi su mondi e culture. Il tuo riferisce con precisione topografica quella sensazione di straniamento (linguistico anzitutto) che mi è successo di provare in Siria o in Giordania. “E guardo il mondo da un oblò”, come diceva la canzone. Colgo nelle tue parole una curiosità onnivora che appartiene al viaggiatore e non al semplice turista.
Attendo con interesse la seconda parte.
Un abbraccio.
P.
Lo straniamento in Cina non è solo linguistico, invade ogni “risvolto”. Per questo che l’ho trovato un viaggio bello, ma non facile. E deve decantare un po’ prima di trovare tutte le parole per essere raccontato.
che occhi belli sul mondo che hai sempre, badev. vero che a volte un sano sentimento di invidia è tollerabile?
Ma è per via degli occhiali, che sono magici. L’invidia, ma sì, certo.
bello lo yupic siberiano, non lo conoscevo! Attendo le prossime puntate che promette bene
Ci sono arrivata attraverso il “loxian”, che ti appassionerebbe in egual misura. Anzi di più, avendo a che fare con la musica. Ciao, Lu-Cho!
A me invece questa prima puntata ha fatto passare tutto l’entusiasmo per un viaggio in Cina…ho sentito principalmente la fatica della differenza culturale. Ma si sa, nei loro confronti io ho dei pregiudizi lavorativi! 🙂
Hai colto molto bene, Prif. È un viaggio coinvolgente e sconvolgente al tempo stesso, quindi in ogni caso ne vale la pena! Alle prossime puntate (vediamo se cambi idea…)!
Occhi belli, ma sai che stavo pensando a quelle settimane in Cina pure io? Aspetto il seguito…
Ehi, non vorrai mica già tornarci?! Hugs.
Magari ci torniamo fra qualche anno: per quest’anno con luoghi lontani ho dato, ma magari un giretto in Corea o Giappone il prossimo anno è un idea su cui pensare
Bentornata mia cara. Quando mi porti il mio regalo? 🙂
Avverrà un equo scambio, doctor. Minuscolo per minuscolo, mi raccomando.
E’ una meta che mi ha sempre affascinato,, ma la difficoltà di comunicazione ha sempre avuto la meglio ! Brave voi che ve ne siete fregate!
P.s. : la prossima volta nasco napoletano così risolvo tutti i problemi di comunicazione! 😉
Piper, Ziavirgi parla un ottimo cinese, altroché!