Continua a raccontarci il mondo, esploratrice.

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Vai, coraggiosa che non sei altro.
Perché ci saresti piaciuta meno se non fossi fatta realmente di quei deserti che percorri e di quelle montagne che scali senza paura.
Certo che resti allo stesso indirizzo, allo stesso numero di cellulare, ma è stato così difficile stasera, per un granchio come me, guardarti dallo scoglio, già protesa nella tua nuova onda.
Nella tua “meritata” onda, timido e tenero comandante, che sarà un’onda calma, un porto di navi ordinate, colorate, sicure, la flotta fortunata per la quale saggiamente, attraverso diversi mari, hai di certo imparato a fare tutti i nodi.
Ovvio che andremo a teatro e al cinema e a cena fuori, ma è la routine a volte la scatola magica, la polveriera quotidiana delle emozioni, di quei rapidi sorrisi di contrabbando, delle parole vere che anche in mezzo alla fatica dei turni di guardia riusciamo a scambiarci e di cui, ritornati a casa, ci ricordiamo come di qualcosa che sa anch’esso di casa, di tempo condiviso che giorno per giorno ci va cucendo insieme, uno addosso all’altro, come un unico prezioso camice.
Ecco, io non so che parte della nostra stoffa si stia staccando, se il colletto, i bottoni o la martingala, ma noi possiamo tenerti stretta nelle tasche, insieme ai nostri promemoria, alle graffette, al regolo del dolore (10, in tutte le scale), agli algoritmi PALS e ai nostri innumerevoli otoscopi scarichi.
E per quanto sia sincero e generoso essere felici per te, crediamo che non sarà mai più la stessa cosa.
Grazie e in bocca al lupo, esploratrice.

A Eleonora, con immenso affetto.
 

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Quasi primavera

_DSC4118Oggi il tuo sguardo è come un orologio sul muro ed io mi scopro vulnerabile alle lancette troppo appuntite del tempo.
Non sai la New York che si va generando sul tuo silenzio, quartiere per quartiere, nuvola per nuvola, parola per parola.
In camera oscura sulla fotografia che galleggia nella vaschetta si svelano un pezzo della tua giacca, un glicine, il mio braccio, l’ex-insegna luminosa del Rodeo in fondo alla strada, appoggiata per terra, spenta e da sostituire, la voce di Louis che nemmeno stasera ha voglia di cucinare, una festa a sorpresa per noi due su una terrazza magnifica che sventola sui grattacieli uptown.
Due anni prima avevi pagato una stanza d’albergo per ospitare una valigia chiusa sul letto per due giorni, un libro sul comodino e uno spazzolino da denti sul lavandino, ma mai, lasciatelo dire, ci fu un denaro meglio speso di quello per una camera 315 disabitata, mentre fuori, sopra i fori imperiali e sulla tua contrattura cervicale, iniziava finalmente a stendersi la primavera.
Ci dissolvemmo in mille particelle di luce, non ricordo se fu prima o dopo Piazza Navona, ma il concetto era destinato a perdurare: vivere, finalmente. Luce a colazione, alla vigilia di Natale, alla stazione di Bologna, nella sala d’attesa del dentista e persino in macchina nel traffico del rientro della sera, due pagliacci, seduti sui sedili anteriori, a raccogliere a ogni semaforo gli ultimi applausi del giorno. 
Dal riflesso delle posate al refettorio si affacciano sorrisi veri e occhi belli, impermeabili ai nervosismi del pianeta, il calendario è solo al presente, ma gira veloce e temperando il tempo forma mucchietti di ricordi sempre più grandi: siamo due matite, in una confezione speciale.
A Milano mi sta aspettando una bicicletta Rossignoli col telaio d’argento, è attaccata a un palo di fronte al Cenacolo di Leonardo, ho voglia di riprendermela, e di rivedere quel dipinto, di pedalare verso la festa di gala di tutti gli aprile, di ritrovarti sui Navigli, dal medesimo lato.
Intanto andiamo “in un’aria di vetro”, di un marzo che non sa cosa vuole, il freddo incoerente di questi giorni non fa fiorire la lagerströmia nel nostro giardino, là dove una notte d’estate abbiamo camminato scalzi di tutte le inutili cose del mondo mortale, aspettando quel miracolo dentro al ventricolo sinistro che infine ciascuno si meriterebbe.

 

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Tabellina dell’11

In fondo al telescopio c’è una bambina di undici anni che da qualche giorno ha messo l’apparecchio fisso ai denti e un prisma di plastica rigata sulla lente sinistra dei suoi occhiali. Sua madre, gonna a portafoglio sotto il ginocchio, mette in moto la Panda 30 rossa e va a parlare col professore di matematica…bisogna avere pazienza, sa, l’età è già ingrata, può capire ora con tutta quella ferraglia in bocca e quella patacca sull’occhio, avvisateci se la vedete intristirsi, comunque a scuola deve andare bene, lei sia giusto, senza sconti, e anche noi faremo del nostro meglio.

In fondo al cannocchiale c’è una ragazza di ventidue anni, con i denti dritti, il codino e una montatura alla moda di resina blu, comincia adesso a rendersi conto che all’altro capo delle flebo c’è la più grande biblioteca di storie che si possa mai immaginare, ci sono, soprattutto, mani che stringono domande difficili, probabilmente con più di una risposta possibile. Lei, alla fine di ogni libro-letto, pensa che la docente di Chimica Organica avesse ragione il primo giorno del primo anno di Università…la Medicina, ragazzi, è una lunga strada in salita, di cui però non vi pentirete mai.

Dietro la lente d’ingrandimento c’è una giovane donna di trentatré anni senza nemmeno una carie, ma con un occhio operato, fragile per sempre, che le ha tolto ogni traccia di invincibilità e le ha messo addosso una gran voglia di guardare. Infatti la si vede spesso con una valigia in mano, affacciata su un fiordo o sudata sotto qualche sole sahariano, e in quei frangenti il suo passaporto dice che più è curiosa e zingara e meglio sta. Quando non viaggia e non studia, scopre nel buio avvolgente del teatro un altro modo collettivo di sognare ed è una grande passione.

Sul palmo della mia mano vedo una donna di quarantaquattro anni, o forse una ragazzina, che sta contando le matrioske e le scrive a chi da poco tempo o da sempre è amichevole o amorevole presenza nell’orbita della sua vita, riconoscendosi davvero il privilegio assoluto di poter godere dell’intelligenza e della gentilezza di tanti.

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La bellezza delle balene a metà del salto

img_4006Dell’Islanda ricordo le mie carezze sulla criniera di un cavallo e code di balena che tramontano eleganti nell’Artico.
Pochissimi elementi alla volta, per lo più in un orizzonte terra-aria o acqua-aria, quasi mai alberi o persone o voci o panchine, nessun cartellone pubblicitario. Intorno era l’assenza, il tempo non scandito, la vastità e mai, nemmeno per un attimo, la noia.
Sedersi era diventare un punto che interrompe il suolo, il ghiacciaio, la prateria, magari una dorsale oceanica o un vulcano che dentro fa le fusa. Alzarsi era raddoppiarsi nell’ombra e l’ombra inchiodava l’estate per terra, fino a molto tardi.
Quel mondo alla fine del mondo faceva rumore di zoccoli di pecore sulla strada, stizzite dai fanali degli uomini, quel mondo era denso come i fumi delle solfatare, caldo come il vapore dei geyser, colorato come le pulcinelle di mare, solenne come gli iceberg nella laguna glaciale.
Noi dormivamo in fattorie dentro il niente e parlavamo di tutto, riempivamo l’isola di parole e di amicizia, avevamo freddo, la notte era metà luce, metà acqua di cascata in lontananza, era ricordo degli arcobaleni del giorno, singoli, doppi, a tutto sesto, tanti, quanti ne volevi. E ne volevamo di nuovi, l’indomani.
Credevamo che tutta quella solitudine non potesse che esplodere in lava incandescente e poi diventare solida, intorno a noi si distendevano morbide altalene lunari, talora ricoperte da muschi, una minuscola promessa vegetale che quasi non osavamo sfiorare per rispetto al respiro del tempo, alla sua infinita lentezza nel dare vita alla vita.
Natura enorme e in miniatura. Ricordo dei fiori piccoli e rosa come fitti chicchi di riso nell’erba, erica forse, e la sabbia nera sottile ai piedi di una parete di basalto, miracolo di geometria, condominio di volatili. Anche noi, come gli altri uccelli, mangiavamo su uno scoglio, davanti al mare.
Un giorno siamo arrivati in un posto in cui le onde portavano pezzi di ghiacciaio fin sulla riva e oltre, si posavano zitti sulla spiaggia come enormi farfalle trasparenti di varie forme, immobili, come in un museo. Ma non morivano in un giorno.
Islanda che manchi soprattutto al nostro orecchio, oltre che al cuore. In ogni suo angolo di vento, in ogni curva e faglia di terra, nei quattro lati delle sue case di torba, nell’azzurro del lago che colma un cratere, l’Islanda ha un suono che una volta udito, non puoi più dimenticare, quello del silenzio.

Questo post è dedicato a Emanuele, solido e divertente compagno di viaggio.

Foto: B. De Vito (all rights reserved)

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Il balzo del capriolo

Dice Saramago:
“Bisogna vedere quel che non si è visto,
vedere di nuovo quel che si è già visto,
vedere in primavera quel che si era visto in estate,
vedere di giorno quel che si era visto di notte”.

Oggi ho visto un paese che non avevo visto.
Nel terzultimo giorno di calendario, da un luogo algebrico, minuscolo, frazione di frazione della campagna umbra, la notte mi sovrasta con un foglio di cielo stellato, la più bella carta da regalo di questo Natale.
Nessuna copertura di rete, non credo ci siano altri ospiti in quest’albergo, c’è un aratro, una vallata, l’inverno che non si nasconde più e fa brinare tutte le cose appena le guarda. Scrivo in un taccuino.

Ripercorro questo anno, lo riabito, mentre lo guardo allontanarsi ormai senza volume tra gli ulivi, con un grembo appiattito, svuotato del totale dei giorni. Fa un fruscio di capriolo e un altro ne compare già fra i rami, da lontano.

Verrà lo stesso tempo, come sempre. Di entusiasmo, pena, gioia, eccessive speranze, calme demolite, turbamenti, ardori, noia, appartenenze antiche e nuove, esplorazioni.

Potersi ricordare di una pelle, di occhi, di voci – che sia un genitore, un figlio, un amico, un amore – come di reami conosciuti, cari al cuore, sentire ciò che sta ai due lati e ciò che si tesse nel mezzo, e tornarci, nella dolce ripetizione delle abitudini, che sono comunque un quotidiano collaudare, specie al passaggio improvviso del vento di ciò che è imponderabile.

Buon Anno!

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Analisi del 2015

I folletti delle statistiche di WordPress.com hanno preparato un rapporto annuale 2015 per questo blog.

Ecco un estratto:

Una metropolitana a New York trasporta 1 200 persone. Questo blog è stato visto circa 5.700 volte nel 2015. Se fosse una metropolitana di New York, ci vorrebbero circa 5 viaggi per trasportare altrettante persone.

Clicca qui per vedere il rapporto completo.

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Ceci n’est pas ma ville

 

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Paris, Bvd Henri IV, 13 novembre 2015

Mercoledi 11 novembre, sera, Parigi, Theatre de la Ville, è in scena il “Dyptique 6/7”. Nella penombra del palcoscenico sei corpi danzanti, vestiti di nero e nebbia, ripetono ipnoticamente un movimento all’unisono e solo le mani e i piedi sono illuminati. Così li ha voluti durante il primo tempo dello spettacolo, Tao Ye, il coreografo. Nel secondo tempo sono diventati sette piccoli segni bianchi in rilievo su sfondo bianco, nell’insieme ricordano un bruco che si contorce nella sua purezza senza suono, allo stesso ritmo di prima, scandito soltanto a tratti da un’emissione di fiato. E’ il Tao Dance Theater di Cina, esteticamente perfetto, noiosissimo e sublime, fino alla fine non comprendi se ciò che stai guardando non lo meriti o non ti meriti, ma come in un’estenuante performance di dervisci rotanti, alleni la pazienza, preso in ostaggio dal fascino del minimalismo e dell’anatomia umana.

Dopo lo spettacolo, cena speciale al ristorante libanese in rue de Lappe insieme a Caroline, che rivedo dopo due anni. Non è cambiata, la maglietta al contrario e un’analoga confusione tra i capelli, come sempre un po’ in ritardo, ma quando mi ha raggiunta tutta affannata nel foyer del teatro mi si è allargato il cuore. Passeggiamo nei dintorni facendoci i riassunti, rue de la Roquette riflette i suoi colori sulla strada bagnata, non tiriamo nemmeno fuori gli ombrelli, le nostre parole sono più fitte della pioggia.
Da quando sono arrivata a Parigi trovo che in generale la città sia molto più presidiata che in passato e non solo in punti “nevralgici”, questo mi fa effetto, lo faccio notare a Caroline, lei mi guarda stupita e mi dice “…on a eu des attentats ici, Barbara, tu te souviens de Charlie Hebdo?! il n’y a pas longtemps…”.

Giovedi 12 novembre, sera, Bibliotheque dell’Université Sorbonne Nouvelle. Sono di nuovo spettatrice, incontriamo Sophie, un’artista quebecoise, ballerina di “gumboot dance”, una danza sudafricana che ebbe origine nelle miniere. Sophie si accompagna da sola con il suo stesso canto e la percussione tribale delle mani su degli stivaloni di gomma stile Wellington, quelli dell’aristocrazia britannica del primo ‘800 o quelli perfetti per l’acqua alta a Venezia, per intendersi. In questa piccola donna l’energia dell’Africa si mescola con la grazia franco-canadese, cantiamo insieme “a canoni” certe parole africane che sanno di antico e di pace e lei non ci fa smarrire, dirigendoci sorridente al ritmo dei colpi sonori sugli stivali e sulla pelle nuda che diventano musica. E’ un’esperienza che ha qualcosa di spirituale, di poetico, forse nessuno credeva di chiudere il giorno così, siamo corali e vivi, stiamo comunicando senza oggetti tra le mani e sembra che per fortuna ne siamo ancora capaci, ci guardiamo in faccia, ci divertiamo molto.
Prendo il metro per tornare in albergo, devo scendere a Voltaire, ho un po’ di cambi per la linea 9, bisogna camminare e fare caso alle insegne. Sulle pareti, paralleli ai miei passi, scorrono veloci i manifesti degli eventi che ci sono in questi giorni in città, su uno leggo “Bataclan”, il nome mi incuriosisce, mi chiedo se l’abbia mai sentito prima, ma è solo per una frazione di secondo, come mille altri pensieri che si creano e si frantumano in fretta nella mente per la loro poca importanza.

Dunque sono a Parigi da due giorni e sono già entrata in contatto con almeno quattro continenti, questa è la vera magia per la quale si ha voglia di tornarci ancora e ancora. Parigi è una lavatrice con tutto il mondo dentro, devi solo scegliere il programma che vuoi far girare, è davvero la “festa mobile” di cui parla Hemingway, una festa centrifuga al termine della quale magari ti stendi ad asciugare su una sedia delle Tuileries o su una panchina di Place Dauphine, metti da parte tutti i pensieri e provi a seguire soltanto le traiettorie delle bocce per terra e degli aerei nel cielo.

Il venerdi 13 mattina non sono nemmeno a metà dei progetti che ho per la testa, sento di aver appena iniziato il mio dialogo con la città, anche se siamo già d’accordo su alcune cose io e lei, il cielo nitido, proprio come filtrava nel pomeriggio dalle vetrate del Grand Palais al Paris Photo, l’invasione autunnale di farfalle gialle sui marciapiedi lungo la Senna, qualcuna già accartocciata sui banchetti dei bouquinistes, la Maison Ladurée di rue Royale aperta e il mio albergo in posizione strategica, dove piace a me, tra Bastille e Republique, “lontano dal casino e a due passi dal Marais”, come mi aveva scritto nella mail chi me lo ha prenotato…
Credo di aver camminato cinque o sei ore al Paris Photo e anche lì c’era il mondo ed è entrato nei miei occhi, un mondo stampato, ma non meno vivo in certi casi. Quell’atmosfera mi rimandava ai miei amici innamorati della fotografia, a tutto l’affetto che si è creato intorno a me in questi anni per questa passione comune, avrei voluto avervi lì per raccontarci le nostre impressioni e in alcune immagini vi ho persino scorti, ognuno col suo stile, ed era divertente scovare qualcosa di vostro dentro i nomi dei grandi. Scambiare due parole con Raymond Depardon mi ha fatta sentire un po’ nella Storia, ma credo che tu, Julian, che lo ammiri straordinariamente, ti saresti meritato più di me di incontrarlo.

Poi i piedi facevano male, perchè non bisogna comprarsi delle scarpe nuove prima di andare ad una mostra dove sai che camminerai per ore, specialmente quando le scarpe sono riproduzioni di calzature coreane tradizionali…così ho deciso di ritornare in albergo, cambiare almeno le scarpe e poi andarmene a cena nei paraggi, magari verso Republique, mi sarebbe piaciuto scattare qualche foto al Canal Saint-Martin di notte, non l’ho mai fatto, ci sono sempre andata di giorno .
Ma erano già oltre le dieci di sera, ero stanca, ho optato per restare ancora più vicina all’albergo e mi sono fermata in un bistrot sul Boulevard Voltaire. Intanto nella zona, da circa un’ora, si sentiva un persistente rumore di sirene di ambulanze e polizia, ho pensato a un brutto incidente.
Mi sono seduta al tavolino e avevo appena ordinato quando mia sorella mi ha chiamato dall’Italia dicendomi che a Parigi erano in corso degli attacchi terroristici. Subito dopo la sua telefonata anche all’interno del bistrot cominciava a crescere la tensione, evidentemente le notizie si diffondevano, cercavamo di capire cosa stesse succedendo dai camerieri che però non stavano mai fermi, dai cellulari. Poi i camerieri hanno iniziato a gridare “vite! vite!”, hanno ritirato all’interno i tavolini del dehors, hanno disposto le sedie sopra i tavolini, hanno chiuso le porte a chiave e hanno abbassato le luci. Lì ho capito che era una cosa seria, ho avuto paura. Ci guardavamo spaventati, impreparati a qualcosa che fosse diverso dalla nostra “dolce vita”, dalla nostra quotidianità di turisti o di normali parigini. All’improvviso non avevo più un programma, ma solo foglietti di calendario che non spettava a me riempire. E adesso, stanotte, domani? Che fare? Ho chiesto che mi facessero rientrare di corsa in albergo dato che era molto vicino, mi sarei sentita più sicura che per strada e così ho fatto, sono salita nella mia stanza e ho guardato i telegiornali fino alle quattro del mattino, poi sono crollata. Ero a meno di un chilometro dal Bataclan e vicinissima a rue de Charonne, due dei luoghi delle sparatorie. Non le ho udite, per fortuna, ma ho continuato a sentire per ore e ore il rumore delle ambulanze e delle sirene della polizia, praticamente tutta la notte.
Alla tv francese raccomandavano di non uscire assolutamente dalle case e dagli alberghi, specie nell’undicesimo e decimo arrondissement, perchè secondo la polizia c’erano due attentatori armati ancora liberi nel quartiere. Il resto è quello che trasmettevano dappertutto, il messaggio di Hollande, la cronaca degli ostaggi e della carneficina al Bataclan, i morti per le strade, le lenzuola lanciate dalle finestre per coprirne i corpi, le vite appese alle finestre, le teste di cuoio, i kamikaze che si facevano esplodere, il delirio totale. Quel “c’est une horreur” del presidente riassumeva bene, nelle parole e nel tono.
Probabilmente quanto è accaduto si è inscritto in me più di quanto immaginassi, nonostante io ne sia stata coinvolta in modo marginale e fortunatamente assai meno violento rispetto ad altri, non oso nemmeno paragonare le mie emozioni col terrore di coloro che si sono trovati in quel teatro con un mitra puntato contro, ma forse si tratta proprio di questo, forse da qui arriva il disagio, il malessere. Mi sento “scampata” per pura casualità, senza aver fatto nulla per meritarmelo, mentre altri che come me non hanno fatto nulla per meritarselo sono morti. Siamo pedine minuscole in un pallottoliere, siamo impermanenti, anche se ci crediamo solidi, ma per fortuna, dico io, ci crediamo solidi, o non riusciremmo a sostenere la vita un giorno dopo l’altro.
Non si va a Parigi, né in alcun altro luogo, allo stadio, a teatro, per strada, pensando alla morte, perciò quando questa si materializza così vicino a noi e ci coglie così di sorpresa nella nostra normalità, non si può non rimanerne profondamente turbati. Mi angoscia l’idea che tutto ciò possa ripetersi ancora e violentare la nostra libertà, quando non addirittura la nostra vita.
Che cosa abbia potuto generare, nel cuore dello stesso Occidente, a quanto pare, e quindi non lontano da noi, nel nostro stesso “humus”, individui così animati dall’odio, con una percezione dell’altro talmente alterata da scagliarsi intenzionalmente non contro “un” nemico preciso, identificabile, ma contro un mucchio indistinto di umani, che cosa abbia prodotto uomini in cui il non avere paura della morte è un sentimento concretamente più forte del desiderio di vivere, questa è la vera questione da capire. È la deprivazione culturale, sociale, economica, è il petrolio, è il fanatismo religioso, è tutte queste cose insieme, è la resa dei conti esasperata contro il cumulo di scelte politiche di chi ha preteso di fare la Storia finora? Quale sarà la cura, la memoria storica o altra violenza?

Il giorno dopo Parigi era surreale, non così presidiata dalle forze dell’ordine come uno si sarebbe immaginato, anzi appariva svuotata, ferma dentro un sabato mattina che sembrava la più desolante delle domeniche, un luogo mortificato in cui la vita stentava a ripartire.

Un animale ferito la mia Parigi amata, non sono riuscita a restare a guardarla così, me ne sono andata.

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La mia cugina acquisita olandese e il boerenkool

IMG_0448 Mio cugino è nato e cresciuto a Roma ma, siccome a Roma non c’erano abbastanza facoltà per studiare all’Università, a diciannove anni se ne andò a Firenze.
Quando poi fu il momento di innamorarsi perdutamente, anche le ragazze italiane non gli bastarono e infatti scelse un’olandese con cui se ne andò all’estero, in Olanda per l’appunto.
Nat è dunque la mia cugina acquisita. E’ una persona che ha molti talenti e tra questi, al contrario di me, quello di cucinare magnificamente.
L’ultima volta che sono stata da loro, nella città lassù-lassù, ha tentato di insegnarmi a preparare un piatto locale molto tipico che si chiama “boerenkool”, una specie di amalgama di patate e cavolo che deve cuocere “senza fretta” (mancano dati scientifici sul tempo effettivo necessario alla cottura) e che al momento giusto va rimescolato più volte con un attrezzo di cui l’Olanda sembra non poter fare a meno, infatti non c’è casa che non ne possieda uno, e cioè questo (non chiamatelo schiacciapatate, perchè suona loro riduttivo) che mostro in figura:
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Dato che oggi, pur essendo appena entrati nell’autunno, la temperatura ricordava quella dei Paesi Bassi, mi era venuta voglia di preparare il boerenkool, ma il problema qui ogni volta è lo stesso, trovare quel tipo di cavolo a foglie spesse che usano loro.

E’ andata più o meno così, via chat…

B. (entusiasta): “Nat, mi rimanderesti per piacere la ricetta del boerenkool?! Grazie mille! Io però lo farei con gli spinaci perchè quella vostra verdura con le foglie belle spesse qui non la trovo proprio…”

N. (come chi avesse udito nominare ingredienti deplorevoli): “Ma boerenkool senza boerenkool non è boerenkoolstampot! Con spinaci è imposibile perché non puó cucinare TANTO… invece boerenkool deve cucinare per un tempo ABBASTANZA LUNGO insieme con patate. Ecco, se cucinare spinaci con patate… penso tu fai una suppa…”

B.: 😦  (sconfitta)

N. (rilancio propositivo): “…però se vuoi una ricetta con spinaci…ho un ricetta di Marocco… buonissimo!”

B.: “Mi arrendo, Nat. Va bene, forse voglio la ricetta marocchina.”

N. (con quella perentorietà tipica nordica cui è difficilissimo controbattere): “Perchè boerenkoolstampot senza boerenkool…IMPOSSIBILE!”

B.: “Ok, cara, ho capito, andrò a cercare la cosa più simile al vostro cavolo. E la troverò.”
Magari domani. Che il boerenkool non si improvvisa, diobono.

P.S: Questo post è dedicato all’adorabile Nat e a tutte le persone straniere che hanno intersecato e intersecano la mia vita e che grazie alle loro differenze culturali mi insegnano a sentirmi più libera e serena su questo frammento di Geografia su cui tutti camminiamo e sgomitiamo.

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La Lega Anseatica e la viaggiatrice perfetta 

_DSC7454Sul treno Bergen-Oslo certamente si può scrivere un post, perché ci vorranno almeno sette ore per arrivare, solo il finestrino mi distrae di continuo con le sue sfilate di boschi e torrenti, fiordi alti e bassi e casette di legno colorate che sembrano grossi barattoli di felicità. E quest’acqua soprattutto, in sequenze senza fine, in larghi specchi circolari, calmi e neri che mi scivolano dentro e assumono già, senza farsi sentire, la forma di ricordi.

Il mio viaggio scandinavo è iniziato da Bergen e dai fiordi nei suoi dintorni.  Bergen è una città molto carina se non piove di traverso, come il giorno che mi ha accolta. È chiamata la città delle sette montagne poiché ne è circondata, conta circa 400.000 abitanti e faceva parte anche lei della “Lega Anseatica”, una cosa che sarebbe bene vi andaste a ripassare sul libro di storia prima di partire, se progettate un viaggio da queste parti, poiché la vedrete refluire ad ogni angolo, più o meno come i relitti navali vichinghi e il salmone a colazione accanto all’anguilla.

Ma siete pigri. Dunque, brevissimamente, la Lega Anseatica era un’alleanza di città (“hanse” in tedesco antico = raggruppamento) che dal tardo medioevo fino all’inizio dell’era moderna mantenne il monopolio dei commerci su gran parte dell’Europa Settentrionale e sul Mar Baltico, una sorta di rete di mutua assistenza a fini commerciali.  Alla città di Bergen ci tenevano molto, quelli della Lega, perché andava fortissimo sul baccalà e non solo, insomma i traffici erano “fiorenti e redditizi” . Ancora oggi c’è un meraviglioso mercato del pesce, molto tipico, rumoroso e variopinto, sicuramente una specie di film dell’orrore per vegani, ma in generale mi pare che qui tradizionalmente non disdegnino né la pesca, né la caccia.

In quattro giorni di viaggio ho già usato tutti i mezzi di trasporto di cielo, di mare e di terra e sono fortunata perché non patisco niente, non devo sedermi per forza davanti nei pullman o mangiare mele verdi sulle barche o respirare dentro un sacchetto di carta al momento del decollo. Sono anzi una viaggiatrice modello, non rompo le scatole a nessuno, parlo solo se piace anche all’altro, altrimenti traffico con le mie cosette: taccuini, penne, macchina fotografica, libro, cellulare, bottiglietta d’acqua, occhiali da vista, occhiali da sole, biglietti che prima o poi qualcuno verrà a vidimare, ricordandomi un’identità che a volte, nel sogno del viaggiare, sfuma un po’ all’orizzonte, persasi in altre vite in cui prova ad immaginarsi mentre è in luoghi diversi dal proprio.

Ora non starò a raccontarvi della bellezza di questi posti, della magia della natura, nemmeno della magia di leggere 11 gradi centigradi su un termometro, contro i 40 che c’erano per esempio in Italia, vorrei raccontarvi invece come alla viaggiatrice perfetta a volte capiti che perda di colpo i poteri e si metta a combinarne una dietro l’altra.

Un momento di grande tensione è stato quello della “tragedia delle scarpe da trekking”.  Le suddette scarpe furono un regalo di fidanzamento, perché lui era uno svedese piuttosto pragmatico e giuro che stravedeva per me, ma trovava anche che un “anello” fosse un dono eccessivamente lezioso, così finiva sempre per orientarsi su articoli più avventurosi.

Forse quelle scarpe avevano in se’ una data di scadenza, un best before di un giorno e un’ora che non erano però quelli in cui sono state messe in valigia, ma ovviamente quelli del giorno prima della partenza per un’escursione sui fiordi norvegesi, una domenica sera, in una cittadina dove dopo le ore 18 si vendono solo trolls o al limite, con premuroso anticipo, oggetti natalizi.

Dunque succedeva che dopo mezz’ora che le avevo ai piedi (e dopo quasi dieci anni che non le mettevo, le mie preziose scarpe da trekking) mi dava l’impressione di sentirmi un po’ troppo molleggiata su di esse, una sensazione strana di instabilità, come una tettonica delle calzature, come se mi pestassi di continuo l’orlo dei pantaloni che invece, controlla e ricontrolla, non toccava nemmeno terra. In più, e questa non era affatto solo una sensazione, rilasciavo come Pollicino delle bricioline beige dietro di me, a ogni passo.  Poco oltre il Fish Market la drammatica scoperta: le tomaie, entrambe, erano quasi completamente scollate e il tessuto connettivo deputato a tenere unito il tutto stava rassegnando le dimissioni, disgregandosi in moltitudini di atomi di spugna.

È incredibile come si possa vivere inconsapevolmente felici prima di accorgersi di una cosa del genere e quanta vergogna possa travolgerci tutta insieme, credendo fermamente che tutto il mondo non abbia occhi che per guardare le nostre scarpe, un insignificante numero 36 nella vastità perduta dell’universo, eppure io così mi sentivo, osservata e soprattutto biasimata.  Dopodiché, la soluzione era lì, a un passo da me (e giusto un passo mi sarei potuta permettere prima che le infíde mi mollassero del tutto): la ragazza bionda alla cassa del negozio di Natale con un grande rotolo di scoch accanto a se’. Pareva annoiarsi terribilmente, il che legittimava ancora di più il mio intento.

“Excuse me…”

“Yes..?”

” I NEED your help”- le rivelo con un soffiato teatrale, assertivo e complice allo stesso tempo, e le mostro il danno ormai quasi irreversibile.

“OH MY GOD!!” – barrisce spropositatamente.

“Che ti gridi, vichinga, guarda che non si addice per niente alla tua eterea bellezza e nemmeno alla circospezione con cui mi sto muovendo da più di un’ora…” La devo placare mentre, starnazzante, si fa strada nella sua sconcertata curiosità. Nel frattempo vendiamo un piccolo abete di Natale e un alce che fa “ciao” con la zampa, ad una coppia di giapponesi. Per un attimo, fra tutti, mi sento la meno surreale.

“Senti – le dico – avrei soltanto bisogno di un po’ del tuo scoch per riuscire almeno a tornare in albergo”. E poi domani pazienza, andrò sui fiordi con le All Star.

“Ah, come dici, nessuno va sui fiordi con le All Star?! …ci sono pionieri per ogni cosa, a me è toccata questa”.

Mentre eseguo la riparazione lei mi guarda attentamente con i suoi occhioni nordici da santa e mi chiede che lavoro faccio.

“Medical Doctor”

“Si vede”, dice lei.

E vabbè, lo prendo come un complimento, e quindi finita la “fasciatura”, la ringrazio molto ed esco. Dopo neanche cento metri siamo al punto di partenza, con l’aggravante che i lacci di scotch sbatacchiano vistosamente sul marciapiede.

Deciso, si prende un taxi anche se l’albergo non è molto lontano, ma non ne posso più.  Il tassista mi informa subito di essere stato molto sfortunato ad aver caricato me, che vado così vicino, dopo aver aspettato il suo turno per un’ora e mezza, creandomi un senso di colpa grande come l’Hardangerfjord che non avevo ancora visto, ma sapevo che era qualcosa di maestoso.

Gli spiego che le mie scarpe sono rotte, ma contrariamente alla maggior parte delle persone qui, sembra capire poco l’inglese. Tuttavia, improvvisamente si acquieta, entra in una modalità di grande empatia e chiacchierando stentatamente di qualsiasi cosa mi accompagna all’Augustin Hotel.

Mentre sto per scendere mi viene da scusarmi con lui per la brevità del tragitto e per giustificarmi gli mostro la deriva ormai inesorabile delle mie scarpe che nel frattempo avevano deposto molliche di spugna su tutto il tappetino davanti al mio sedile.  Sdegnatissimo si riporta nell’umore precedente, quello con lo sguardo scintillante da lanciatore di coltelli, scuote il capo visibilmente infastidito e infine, bello come Morten Harket, ma stronzo come Erode, mi fredda così: “Avevo capito che il problema fossero le gambe, non le scarpe”.

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Questa disavventura ha preceduto di poche ore quella in cui sono sbarcata sul fiordo sbagliato, scoprendo totalmente per caso, come succede spesso ai viaggiatori perfetti, un posto incantevole chiamato Lofthus, che probabilmente non avrei mai visitato se  io fossi una persona più seria e concentrata.  Infatti oltre ad essere un vero e proprio giardino, a Lofthus, nell’attesa dell’unico bus di ritorno a Eidfjord previsto in serata, ho conosciuto la pace dei silenzi norvegesi , rotti solo dalle conversazioni quasi umane dei gabbiani, ed il profumo di rose enormi, come non ne avevo mai viste. Proprio vero: “all clouds have a silver lining”. Non tutti i mali…eccetera eccetera.

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Luglio, il 14, e le fiabe italiane

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Luglio fa delle righe di persiana sul tavolo della mia cucina. Poggiata tra due righe una scatoletta di mandorle salate rivela sul retro la sua impressionante portata calorica: 260Kcal per 40 grammi.

Questa è l’estate. E questi quattordici giorni di luglio quante calorie fanno? Quante punture di zanzare, quante bottigliette d’acqua, quanta voglia al mattino di essere trasportati su e giù in un ombroso baby-pullman, al fondo di braccia tese di madri e padri, anzichè prendere l’autobus?

Diventati grandi, ci assumiamo le responsabilità, ci assumiamo l’afa.

Nessuno che ci ripari gli occhi, ci abbassi la capotte della carrozzina, sventolandoci sul viso un po’ di finto settembre, ora che tocca a noi, la più grande tentazione è arrendersi al disagio e al lamento. Ma andarsela a cercare un po’ di frescura, agitando bene le ali, no?

Io durante il tragitto, nel mio posto nell’alto forno, rileggo le Fiabe Italiane di Calvino, sgualcitissime, vissute, le ho sgualcite io con le manine di seconda elementare. La prima pagina dice che era il 1980 ed era solo l’inizio di sgualcire fiabe, o di viverle.

“Non do pere alla Strega Bistrega, se no mi prende e nel sacco mi lega”

E questo è sempre stato chiaro e così ci teniamo le pere belle strette. Ma non è da prendere così alla lettera, che poi a volte ciò che sembra una Strega o addirittura una Bistrega, non lo è. Anzi, ci vuole solo un po’ di coraggio.

E invece, vedi, nemmeno quest’anno abbiamo preso la Bastiglia.

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