Paris, Bvd Henri IV, 13 novembre 2015
Mercoledi 11 novembre, sera, Parigi, Theatre de la Ville, è in scena il “Dyptique 6/7”. Nella penombra del palcoscenico sei corpi danzanti, vestiti di nero e nebbia, ripetono ipnoticamente un movimento all’unisono e solo le mani e i piedi sono illuminati. Così li ha voluti durante il primo tempo dello spettacolo, Tao Ye, il coreografo. Nel secondo tempo sono diventati sette piccoli segni bianchi in rilievo su sfondo bianco, nell’insieme ricordano un bruco che si contorce nella sua purezza senza suono, allo stesso ritmo di prima, scandito soltanto a tratti da un’emissione di fiato. E’ il Tao Dance Theater di Cina, esteticamente perfetto, noiosissimo e sublime, fino alla fine non comprendi se ciò che stai guardando non lo meriti o non ti meriti, ma come in un’estenuante performance di dervisci rotanti, alleni la pazienza, preso in ostaggio dal fascino del minimalismo e dell’anatomia umana.
Dopo lo spettacolo, cena speciale al ristorante libanese in rue de Lappe insieme a Caroline, che rivedo dopo due anni. Non è cambiata, la maglietta al contrario e un’analoga confusione tra i capelli, come sempre un po’ in ritardo, ma quando mi ha raggiunta tutta affannata nel foyer del teatro mi si è allargato il cuore. Passeggiamo nei dintorni facendoci i riassunti, rue de la Roquette riflette i suoi colori sulla strada bagnata, non tiriamo nemmeno fuori gli ombrelli, le nostre parole sono più fitte della pioggia.
Da quando sono arrivata a Parigi trovo che in generale la città sia molto più presidiata che in passato e non solo in punti “nevralgici”, questo mi fa effetto, lo faccio notare a Caroline, lei mi guarda stupita e mi dice “…on a eu des attentats ici, Barbara, tu te souviens de Charlie Hebdo?! il n’y a pas longtemps…”.
Giovedi 12 novembre, sera, Bibliotheque dell’Université Sorbonne Nouvelle. Sono di nuovo spettatrice, incontriamo Sophie, un’artista quebecoise, ballerina di “gumboot dance”, una danza sudafricana che ebbe origine nelle miniere. Sophie si accompagna da sola con il suo stesso canto e la percussione tribale delle mani su degli stivaloni di gomma stile Wellington, quelli dell’aristocrazia britannica del primo ‘800 o quelli perfetti per l’acqua alta a Venezia, per intendersi. In questa piccola donna l’energia dell’Africa si mescola con la grazia franco-canadese, cantiamo insieme “a canoni” certe parole africane che sanno di antico e di pace e lei non ci fa smarrire, dirigendoci sorridente al ritmo dei colpi sonori sugli stivali e sulla pelle nuda che diventano musica. E’ un’esperienza che ha qualcosa di spirituale, di poetico, forse nessuno credeva di chiudere il giorno così, siamo corali e vivi, stiamo comunicando senza oggetti tra le mani e sembra che per fortuna ne siamo ancora capaci, ci guardiamo in faccia, ci divertiamo molto.
Prendo il metro per tornare in albergo, devo scendere a Voltaire, ho un po’ di cambi per la linea 9, bisogna camminare e fare caso alle insegne. Sulle pareti, paralleli ai miei passi, scorrono veloci i manifesti degli eventi che ci sono in questi giorni in città, su uno leggo “Bataclan”, il nome mi incuriosisce, mi chiedo se l’abbia mai sentito prima, ma è solo per una frazione di secondo, come mille altri pensieri che si creano e si frantumano in fretta nella mente per la loro poca importanza.
Dunque sono a Parigi da due giorni e sono già entrata in contatto con almeno quattro continenti, questa è la vera magia per la quale si ha voglia di tornarci ancora e ancora. Parigi è una lavatrice con tutto il mondo dentro, devi solo scegliere il programma che vuoi far girare, è davvero la “festa mobile” di cui parla Hemingway, una festa centrifuga al termine della quale magari ti stendi ad asciugare su una sedia delle Tuileries o su una panchina di Place Dauphine, metti da parte tutti i pensieri e provi a seguire soltanto le traiettorie delle bocce per terra e degli aerei nel cielo.
Il venerdi 13 mattina non sono nemmeno a metà dei progetti che ho per la testa, sento di aver appena iniziato il mio dialogo con la città, anche se siamo già d’accordo su alcune cose io e lei, il cielo nitido, proprio come filtrava nel pomeriggio dalle vetrate del Grand Palais al Paris Photo, l’invasione autunnale di farfalle gialle sui marciapiedi lungo la Senna, qualcuna già accartocciata sui banchetti dei bouquinistes, la Maison Ladurée di rue Royale aperta e il mio albergo in posizione strategica, dove piace a me, tra Bastille e Republique, “lontano dal casino e a due passi dal Marais”, come mi aveva scritto nella mail chi me lo ha prenotato…
Credo di aver camminato cinque o sei ore al Paris Photo e anche lì c’era il mondo ed è entrato nei miei occhi, un mondo stampato, ma non meno vivo in certi casi. Quell’atmosfera mi rimandava ai miei amici innamorati della fotografia, a tutto l’affetto che si è creato intorno a me in questi anni per questa passione comune, avrei voluto avervi lì per raccontarci le nostre impressioni e in alcune immagini vi ho persino scorti, ognuno col suo stile, ed era divertente scovare qualcosa di vostro dentro i nomi dei grandi. Scambiare due parole con Raymond Depardon mi ha fatta sentire un po’ nella Storia, ma credo che tu, Julian, che lo ammiri straordinariamente, ti saresti meritato più di me di incontrarlo.
Poi i piedi facevano male, perchè non bisogna comprarsi delle scarpe nuove prima di andare ad una mostra dove sai che camminerai per ore, specialmente quando le scarpe sono riproduzioni di calzature coreane tradizionali…così ho deciso di ritornare in albergo, cambiare almeno le scarpe e poi andarmene a cena nei paraggi, magari verso Republique, mi sarebbe piaciuto scattare qualche foto al Canal Saint-Martin di notte, non l’ho mai fatto, ci sono sempre andata di giorno .
Ma erano già oltre le dieci di sera, ero stanca, ho optato per restare ancora più vicina all’albergo e mi sono fermata in un bistrot sul Boulevard Voltaire. Intanto nella zona, da circa un’ora, si sentiva un persistente rumore di sirene di ambulanze e polizia, ho pensato a un brutto incidente.
Mi sono seduta al tavolino e avevo appena ordinato quando mia sorella mi ha chiamato dall’Italia dicendomi che a Parigi erano in corso degli attacchi terroristici. Subito dopo la sua telefonata anche all’interno del bistrot cominciava a crescere la tensione, evidentemente le notizie si diffondevano, cercavamo di capire cosa stesse succedendo dai camerieri che però non stavano mai fermi, dai cellulari. Poi i camerieri hanno iniziato a gridare “vite! vite!”, hanno ritirato all’interno i tavolini del dehors, hanno disposto le sedie sopra i tavolini, hanno chiuso le porte a chiave e hanno abbassato le luci. Lì ho capito che era una cosa seria, ho avuto paura. Ci guardavamo spaventati, impreparati a qualcosa che fosse diverso dalla nostra “dolce vita”, dalla nostra quotidianità di turisti o di normali parigini. All’improvviso non avevo più un programma, ma solo foglietti di calendario che non spettava a me riempire. E adesso, stanotte, domani? Che fare? Ho chiesto che mi facessero rientrare di corsa in albergo dato che era molto vicino, mi sarei sentita più sicura che per strada e così ho fatto, sono salita nella mia stanza e ho guardato i telegiornali fino alle quattro del mattino, poi sono crollata. Ero a meno di un chilometro dal Bataclan e vicinissima a rue de Charonne, due dei luoghi delle sparatorie. Non le ho udite, per fortuna, ma ho continuato a sentire per ore e ore il rumore delle ambulanze e delle sirene della polizia, praticamente tutta la notte.
Alla tv francese raccomandavano di non uscire assolutamente dalle case e dagli alberghi, specie nell’undicesimo e decimo arrondissement, perchè secondo la polizia c’erano due attentatori armati ancora liberi nel quartiere. Il resto è quello che trasmettevano dappertutto, il messaggio di Hollande, la cronaca degli ostaggi e della carneficina al Bataclan, i morti per le strade, le lenzuola lanciate dalle finestre per coprirne i corpi, le vite appese alle finestre, le teste di cuoio, i kamikaze che si facevano esplodere, il delirio totale. Quel “c’est une horreur” del presidente riassumeva bene, nelle parole e nel tono.
Probabilmente quanto è accaduto si è inscritto in me più di quanto immaginassi, nonostante io ne sia stata coinvolta in modo marginale e fortunatamente assai meno violento rispetto ad altri, non oso nemmeno paragonare le mie emozioni col terrore di coloro che si sono trovati in quel teatro con un mitra puntato contro, ma forse si tratta proprio di questo, forse da qui arriva il disagio, il malessere. Mi sento “scampata” per pura casualità, senza aver fatto nulla per meritarmelo, mentre altri che come me non hanno fatto nulla per meritarselo sono morti. Siamo pedine minuscole in un pallottoliere, siamo impermanenti, anche se ci crediamo solidi, ma per fortuna, dico io, ci crediamo solidi, o non riusciremmo a sostenere la vita un giorno dopo l’altro.
Non si va a Parigi, né in alcun altro luogo, allo stadio, a teatro, per strada, pensando alla morte, perciò quando questa si materializza così vicino a noi e ci coglie così di sorpresa nella nostra normalità, non si può non rimanerne profondamente turbati. Mi angoscia l’idea che tutto ciò possa ripetersi ancora e violentare la nostra libertà, quando non addirittura la nostra vita.
Che cosa abbia potuto generare, nel cuore dello stesso Occidente, a quanto pare, e quindi non lontano da noi, nel nostro stesso “humus”, individui così animati dall’odio, con una percezione dell’altro talmente alterata da scagliarsi intenzionalmente non contro “un” nemico preciso, identificabile, ma contro un mucchio indistinto di umani, che cosa abbia prodotto uomini in cui il non avere paura della morte è un sentimento concretamente più forte del desiderio di vivere, questa è la vera questione da capire. È la deprivazione culturale, sociale, economica, è il petrolio, è il fanatismo religioso, è tutte queste cose insieme, è la resa dei conti esasperata contro il cumulo di scelte politiche di chi ha preteso di fare la Storia finora? Quale sarà la cura, la memoria storica o altra violenza?
Il giorno dopo Parigi era surreale, non così presidiata dalle forze dell’ordine come uno si sarebbe immaginato, anzi appariva svuotata, ferma dentro un sabato mattina che sembrava la più desolante delle domeniche, un luogo mortificato in cui la vita stentava a ripartire.
Un animale ferito la mia Parigi amata, non sono riuscita a restare a guardarla così, me ne sono andata.